martedì, febbraio 28, 2012

La CEDU condanna l'Italia per i respingimenti in Libia

La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia per i respingimenti di immigrati verso la Libia. 
Si tratta del caso "Hirsi Jamaa e altri contro l'Italia" del 2009 allorquando un gruppo di circa 200 immigrati somali ed eritrei provenienti dalla Libia furono rimpatriati dalle autorità italiane.
 Ai richiedenti l'Italia dovrà versare un risarcimento di 15 mila euro più le spese processuali.

Il principio di non refoulement 
L’Italia ha violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e in particolare il principio di non refoulement  (non respingimento), che proibisce di respingere migranti verso paesi dove possono essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.

I fatti
Il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali le autorità italiane intercettarono una barca con a bordo circa 200 somali ed eritrei, tra cui bambini e donne in stato di gravidanza. I migranti furono presi a bordo da una imbarcazione italiana, e respinti a Tripoli, dove, contro la loro volontà, vennero riconsegnati alle autorità libiche.
Dalle ricostruzioni successive si è evinto che non vi fu alcuna identificazione da parte delle autorità italiane che del resto non fornirono alcuna informazione riguardo la destinazione. Tant’è che i migranti erano convinti di essere diretti verso le coste italiane.
Rintracciati, dopo il loro respingimento, dal Consiglio italiano per i rifugiati in Libia, 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei, presentarono il ricorso, deciso oggi, alla Corte Europea contro l’Italia, assistiti dagli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani.

La motivazione della Corte
La Corte ha dunque condannato l’Italia per la violazione di 3 principi fondamentali: il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (articolo 3 Cedu), l’impossibilità di ricorso (articolo 13 Cedu) e il divieto di espulsioni collettive (articolo 4 IV Protocollo aggiuntivo Cedu).
Per la prima volta, quindi, la Corte ha equiparato il respingimento collettivo alla frontiera e in alto mare alle espulsioni collettive nei confronti di chi è già nel territorio. I giudici inoltre hanno ricordato che i diritti dei migranti africani in transito per raggiungere l’Europa sono sistematicamente violati e la Libia non ha offerto ai richiedenti asilo un’adeguata protezione contro il rischio di essere rimpatriati nei paesi di origine dove possono essere perseguitati o uccisi.

Per gli avvocati della difesa: trattamenti disumani
“Nel caso di specie - ha dichiarato l’avvocato Anton Giulio Lana - non si è trattato di un mero rischio di subire in Libia trattamenti inumani e degradanti; i ricorrenti hanno effettivamente subito tali trattamenti nei campi di detenzione, come drammaticamente testimoniato dai sopravvissuti”. “Quel che è più grave - aggiunge l’avvocato Andrea Saccucci - è che il Governo italiano abbia affermato pubblicamente che i migranti respinti non rientravano tra le persone aventi diritto all’asilo e non correvano alcun rischio in Libia, affermazione poi clamorosamente smentita dai fatti”.
A causa di questa politica, secondo le stime dell’Unhcr circa 1.000 migranti, incluse donne e bambini, sono stati intercettati dalla Guardia costiera italiana e forzatamente respinti in Libia senza che prima fossero verificati i loro bisogni di protezione.

Stati vincolati al rispetto degli accordi
“Questa sentenza prova che nelle operazioni di respingimento sono stati sistematicamente violati i diritti dei rifugiati, l’Italia ha infatti negato la possibilità di chiedere protezione e ha così respinto in Libia più di mille persone che avevano il diritto di essere accolte in Italia. Vogliamo che questo messaggio arrivi in maniera inequivocabile al Governo Monti: nel ricontrattare gli accordi di cooperazione con il Governo di Transizione Libico, i diritti dei rifugiati non possono essere negoziati” ha dichiarato Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati.
Secondo Allan Leas, facente funzioni del Segretario Generale dell’Ecre: “Questa sentenza conferma che gli obblighi che gli Stati hanno assunto con la Cedu non si fermano con i loro confini geografici. Gli Stati non possono abdicare i loro principi, valori e il loro impegno nella protezione dei diritti umani facendo fuori dei loro confini quello che non sarebbe consentito nei loro territori”.

La ricostruzione del Consiglio italiano dei rifugiati
In una nota il Consiglio italiano dei rifugiati ricostruisce le condizioni di vita in Libia dei migranti respinti il 6 maggio 2009. La maggior parte di essi è stata reclusa per molti mesi nei centri di detenzione libici ove ha subito violenze e abusi di ogni genere. Dopo lo scoppio del conflitto in Libia, i ricorrenti che si trovavano ancora a Tripoli, ed erano stati nel frattempo liberati dai centri di detenzione, sono stati vittime di rappresaglie sia da parte delle milizie fedeli al regime sia da parte degli insorti e sono stati costretti a nascondersi per alcune settimane senza acqua ne cibo. Dopo l’inizio dei bombardamenti Nato, alcuni ricorrenti sono scappati in Tunisia, altri hanno tentato nuovamente di imbarcarsi verso l’Europa, di nuovo.

Un ricorrente è riuscito a lasciare nuovamente la Libia alla volta di Malta, dove ha richiesto e ottenuto protezione. Due ricorrenti sono, invece, deceduti nel tentativo di raggiungere nuovamente l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Un ricorrente è riuscito a fuggire in Israele, mentre un altro è ritornato in Etiopia.

Sulla base di testimonianze, si teme che altri ricorrenti abbiano perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia via mare. Al riguardo, si deve ricordare che secondo le stime dell’Unhcr sarebbero circa 1.500 i migranti ad aver perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia via mare nel 2011. (da Il Sole 24 ore)

Qualche ulteriore riflessione sul caso Garzòn

Una rapida ed interessante riflessione della collega Maria Mercedes Pisani sulla Sentenza del Tribunale Supremo spagnolo che ha condannato Balthasar Garzòn

Garzòn condannato dal Tribunal Supremo spagnolo per intercettazioni illecite di conversazioni tra indagto carcerato ed avvocato

La notizia della condanna di Garzòn, ha solleticato anche la  curiosità,soprattutto perché è stata quasi ignorata dalla stampa italiana chele ha dedcato al massimo qualche trafiletto.
I fatti: il 9 febbraio il Tribunal Supremo (Spagna) ha condannato Baltasar Garzòn ad una “multa di quattordici mesi con una diaria pari a 6 euro” ed a undici anni di inabilitazione da qualsiasi funzione giudiziaria per aver eseguito delle intercettazioni dei colloqui intervenuti in carcere tra degli indagati, in detenzione preventiva, ed i loro avvocati difensori.
Baltasaz Garzòn è il campione o “la rock star” (come dice The Guardian) della giurisdizione universale, nel diritto penale internazionale ma anche un personaggio piuttosto controverso nel suo paese.
In ogni caso la sentenza è interessantissima per i principi affermati, pesantissima quanto ai contenuti indirizzati al condannato.
Ve ne propongo una sintesi, nella quale ho tradotto (liberamente) alcuni passaggi che mi sembrano più interessanti:
“Il diritto di difesa è un elemento centrale del processo penale dello Stato di diritto, consiste in un processo con tutte le garanzie. Non è possibile costruire un processo giusto se si elimina totalmente il diritto di difesa, sicché le sue possibili restrizioni devono essere espressamente giustificate”.
Nel caso in questione, la Corte, dice che non si discute della sufficienza degli indizi o della motivazione del provvedimento, ma piuttosto del “valore giuridico penale della decisione giudiziaria che, incidendo direttamente sul diritto alla difesa e sopprimendo la confidenzialità, accordò l’autorizzazione all’intercettazione delle comunicazioni tra gli imputati imprigionati (in carcere preventivo) e i loro avvocati difensori, senza che esistessero dati di nessun tipo che indicassero che gli intercettati stavano utilizzando l’esercizio delle facoltà di difesa per commettere nuovi delitti.”
Nel ribadire la sottoposizione alla legge ed alla Costituzione di tutti i poteri pubblici, la Corte si esprime così: “Lo Stato di diritto è violato quando il giudice, con il pretesto di applicare la legge, la attua secondo una propria visione soggettiva … attribuendo alla norma un significato irrazionale, sostituendo all’imperio della legge un atto contrario di mero volontarismo”.
E precisa, che visto in questo modo, il delitto di “prevaricaciòn” non può in alcun modo essere inteso come un attacco alla indipendenza del giudice, ma piuttosto rappresenta una esigenza democratica imposta dalla necessità di punire una condotta che risulta lesiva dello Stato di Diritto.
Insomma, il giudice non può volgere l’interpretazione della legge ad uso e consumo delle sue indagini, poiché “la giustizia ottenuta a qualsiasi prezzo, finisce col negare la Giustizia”.
Nel caso di specie,va tenuto presente che il diritto per l’accusato di comunicare con il proprio difensore, senza essere ascoltato da terze persone “è una delle esigenze elementari del giusto processo…”
In sostanza le intercettazioni disposte in relazione alle comunicazioni riservate che gli imputati, in stato di custodia cautelare in carcere, intrattenevano nel parlatorio del centro penitenziario sono state “un atto arbitrario, per carenza di motivazione, che distrugge la configurazione costituzionale del processo penale come processo giusto”. Questo perché le intercettazioni sono state giustificate soltanto dall’esistenza di indizi relativi all’attività criminale per la quale gli imputati si trovavano in carcerazione preventiva, indizi che sono precisamente quelli che avevano determinato e giustificato la carcerazione preventiva, senza che si fosse esaminata la necessità che tali indizi coinvolgessero anche i difensori. In pratica è una interpretazione inammissibile della legge, perché condurrebbe alla automatica autorizzazione alle intercettazione delle conversazioni tra imputato in prigione ed il suo difensore, senza che si estenda la valutazione anche all’esistenza di indizi che effettivamente facciano ritenere che attraverso il difensore l’imputato stia cercando di commettere altri e nuovi reati (qui il reato sospettato era il riciclaggio).
La Corte, condannando Garzòn, dice che con l’ingiustificata riduzione del diritto di difesa e dei diritti ad esso connessi (riservatezza, segreto professionale…) ha messo in discussione l’intero sistema processuale spagnolo, teoricamente dotato di tutte le garanzie costituzionali proprie di uno Stato di diritto contemporaneo, “ammettendo pratiche che ai tempi odierni si praticano solo nei regimi totalitari nei quali tutto è considerato valido al fine di ottenere l’informazione che interessa, o si suppone interessi, lo Stato, prescindendo dalle garanzie minime effettive per i cittadini, e trasformando in tal modo le previsioni costituzionali e legali sui tali garanzie in mere proclamazioni prive di contenuto”.
Va detto che questa è solo la prima di tre diverse cause nei confronti di Garzòn ad andare in decisione, e i “mormorii” di corridoio, sostengono che, volutamente, si sia accelerato questo processo, perché passasse in secondo piano un altro giudizio riguardante le indagini che Garzòn ha tentato di fare in relazione a crimini franchisti (dove lo scrimine della competenza, o dell’applicazione dell’amnistia del 1977 sui reati politici del regime franchista, è dato dalla individuazione di crimini contro l’umanità), dal quale (sempre secondo i si dice) Garzòn uscirà assolto e n processo per dei finanziamenti ricevuti da parte del Banco di Santander).
Com’è naturale, molte associazioni e movimenti internazionali in favore della giurisdizione universale si sono mobilitate, soprattutto in relazione alla causa riguardante i crimini franchisti e sono stati pubblicati commenti e difese, in particolare sulla tutela dell’indipendenza dei giudici, sul condizionamento che si può determinare per la sola possibilità di essere sottoposti ad un giudizio…
Ohibò.. ma dove l’ho già letta questa cosa…
Sicché ho trovato alcuni documenti, in particolare una relazione depositata dall’ONG Interights, sulla indipendenza dei giudici (che tento in qualche modo di mettere on-line) dalla quale sembrano riprese le recentissime affermazioni dei rappresentanti della magistratura italiana sulla responsabilità CIVILE dei giudici, anche se ricopiate da una vicenda in cui, invece, il diritto nazionale considera che il Giudice risponda innanzi ad una giurisdizione PENALE.
Ve ne lascio l’esame e lo sviluppo di ulteriori commenti.

martedì, febbraio 14, 2012

Interessante parere della Camera sulla situazione carceraria

Interessante parere espresso dalla XIV Commissione permanente (Politiche dell'Unione europea) della Camera dei Deputati sulla situazione carceraria.
La Commissione della Camera dei Deputati richiama il Governo, nella delicata materia dell'esecuzione penale, al rispetto dei diritti e dei principi di diritto europeo al fine di superare la flagrante violazione, in atto nel nostro paese, della legalità europea in materia di condizioni carcerarie.
L'atto dlela Commissione è null'altro che un parere, non dotato di alcun effetto vincolante, ma rappresenta una ulteriore manifestazione di una situazione ormai intollerabile e che mette a dura prova la legalità costituzionale ed europea del nostro paese, a rirpova di un ritardo italiano nella costruzione di uno stato di diritto pienamente conforme ai parametri europei.

ALLEGATO 2 al processo verbale del 7 febbraio 2012

DL n. 211/2011: Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri (C. 4909, approvato dal Senato).

PARERE APPROVATO DALLA COMMISSIONE

La XIV Commissione (Politiche dell'Unione europea),
esaminato il disegno di legge C. 4909 Governo, approvato dal Senato, di conversione del DL 211/2011: Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri;
ricordato che:
la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito (Causa Sulejmanovic c. Italia - Seconda Sezione - sentenza 16 luglio 2009 - ricorso n. 22635/03) che, sebbene non sia possibile fissare in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto all'interno della propria cella ai termini della Convenzione, la mancanza evidente di spazio costituisce violazione dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti;
con riferimento ad un profilo connesso a quello sopra richiamato, l'Italia è inoltre sottoposta dal 2001 ad un monitoraggio periodico, da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, delle misure adottate per risolvere il problema strutturale della lentezza della giustizia;
a tale riguardo il 2 dicembre 2010 il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha invitato, con la risoluzione CM/ResDH(2010)224, il Governo italiano a modificare la legge n. 89/2001 (c.d. «legge Pinto») in modo da accelerare la corresponsione degli indennizzi per eccessiva durata dei processi previsti da tale legge;
la risoluzione faceva seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo del 21 dicembre 2010 (Causa Gaglione ed altri c. Italia) che ha constatato in 475 casi la violazione della Convenzione Europea da parte dello Stato italiano per i ritardi nella corresponsione dell'indennizzo, sentenza richiamata anche dalla Relazione del Governo sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato italiano (anno 2010) trasmessa al Parlamento il 28 giugno 2011;
l'articolo 6 del Trattato dell'Unione europea, stabilisce che «L'Unione aderisce alla Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali»;
il programma di Stoccolma per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia per il periodo 2010-2014, adottato dal Consiglio europeo nel dicembre 2009, prevede un impegno particolare dell'UE in materia di detenzione;
sulla base di tale programma il 14 giugno 2011 la Commissione europea ha presentato il documento «Rafforzare la fiducia reciproca nello spazio giudiziario europeo - Libro verde sull'applicazione della normativa UE sulla giustizia penale nel settore della detenzione» (COM(2011)327);
il documento ribadisce che, sebbene le questioni sulla detenzione rientrino nella competenza degli Stati membri, le condizioni di detenzione possono avere un impatto diretto sul buon funzionamento del principio di reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie all'interno dell'Unione. In questo quadro, il Libro verde ha inteso approfondire il tema dell'interazione tra le condizioni della detenzione e gli strumenti del riconoscimento reciproco adottati a livello UE (quali ad es. il Mandato d'arresto europeo e l'Ordinanza cautelare europea), avviando una consultazione pubblica che si è conclusa lo scorso 30 novembre;
in particolare, oggetto di consultazione è stata la richiesta di informazioni circa le misure alternative alla custodia cautelare e alla detenzione previste dagli ordinamenti nazionali e circa l'opportunità di promuovere tali misure a livello UE e/o di stabilire norme minime nell'ambito dell'Unione europea che regolino la durata massima della custodia. Ulteriori quesiti hanno riguardato la possibilità di migliorare il controllo delle condizioni di detenzione da parte degli Stati membri e di incoraggiare le amministrazioni penitenziarie a lavorare in rete e a stabilire le migliori pratiche;
il 15 dicembre 2011 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulle condizioni detentive nell'UE, nella quale ha invitato gli Stati membri a stanziare idonee risorse alla ristrutturazione e all'ammodernamento delle carceri;
il Parlamento europeo ha inoltre invitato la Commissione e le istituzioni UE ad avanzare una proposta legislativa sui diritti delle persone private della libertà, e a sviluppare ed applicare regole minime per le condizioni carcerarie e di detenzione nonché standard uniformi per il risarcimento delle persone ingiustamente detenute o condannate;
considerato che il provvedimento contiene alcune prime misure volte ad «allentare» la tensione detentiva, in attesa di provvedimenti maggiormente strutturali;
esprime
PARERE FAVOREVOLE

con la seguente osservazione:
provveda la Commissione di merito ad individuare con il Governo un percorso legislativo idoneo a garantire l'adempimento delle obbligazioni dell'Italia in sede europea concernenti la situazione carceraria e la inadeguatezza del sistema giudiziario.

giovedì, febbraio 09, 2012

Il Tribunale Supremo spagnolo condanna Garzon

O dei diritti presi sul serio.
Esemplare sentenza del Tribunale Supremo spagnolo, la nostra Cassazione, nei confronti del celebre giudice Balthasar Garzon. Il Tribunale ha disposto la condanna ad 11 anni di inabilitazione professionale e 14 mesi di detenzione. 
Garzon è stato riconosciuto responsabile di abuso ai sensi degli artt. 446 e 536 del codice penale spagnolo per aver violato garanzie costituzionali, nello specifico avrebbe ordinato la intercettazione di alcuni soggetti detenuti mentre questi erano a colloquio con i propri difensori, qualcosa a cui siamo tristemente abituati anche in Italia.
Il delitto previsto dall'art. 446 (prevaricazione) e' un reato speciale che sanziona magistrati e giudici che violano la legge nell'esercizio delle loro funzioni, mentre l'art. 536 si riferisce alla sanzione delle intercettazioni illegalmente disposte.
Qui di seguito il link alla sentenza del Supremo spagnolo: la sentenza.

martedì, febbraio 07, 2012

Responsabuilità civile dei magistrati: la posizione delle Camere penali

La responsabilità dei magistrati, e quella del Parlamento.
Quanto accaduto in questi giorni, in particolare la vicenda relativa all’approvazione dell'emendamento Pini sulla responsabilità civile dei magistrati, merita una riflessione che va ben oltre la specifica vicenda.
Fin dal congresso di Palermo, e poi durante la discussione che seguì la presentazione del progetto di riforma costituzionale del Ministro Alfano, l'Unione delle Camere Penali ha sottolineato la necessità di modificare l’attuale normativa, per la centralità che la questione riveste rispetto al modello giudiziario che si vuole adottare, invitando a farlo senza cedere a facili demagogie.
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Il fallimento della attuale legge sulla responsabilità civile dei magistrati è testimoniato inequivocabilmente dai numeri (solo 400 casi hanno superato il filtro di ammissibilità e solo 4 sono state le condanne in ventiquattro anni), e la sua inadeguatezza è già certificata anche in sede europea da due specifiche pronunce della Corte di Giustizia. Tutto questo avrebbe dovuto imporre un intervento organico di riforma da almeno quindici anni.
Un intervento che dovrebbe essere fondato essenzialmente sull’abolizione della valutazione preliminare di ammissibilità, sulla definizione più ampia delle ipotesi di colpa grave, sulla modifica della così detta clausola di salvaguardia, estendendo le cause di responsabilità anche ai casi di gravissima negligenza professionale dei magistrati nell'attività di applicazione delle norme
Non occorre essere dei giuristi per comprendere, infatti, che spedire in prigione per omonimia la persona sbagliata non può essere escluso dalle ipotesi di responsabilità del magistrato, come oggi avviene; così come appare del tutto irreale che un avvocato sia responsabile nel caso in cui ignori completamente l'esistenza di una determinata legge ed il magistrato no.
Su questo pende in Parlamento una specifica proposta, elaborata dalla Camera Penale di Roma e fatta propria dall'Unione, che, come molte altre cose serie, il Parlamento ha omesso di esaminare nel corso della legislatura in corso.
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Che la delicata materia abbisogni di riflessione approfondita e di un intervento sistematico e non di incursioni mal formulate tecnicamente, è fuori discussione, posto che la stessa coinvolge beni primari della giurisdizione, come l’autonomia, l’indipendenza e la libertà morale del singolo magistrato, da un lato, ed il rapporto tra il cittadino e lo Stato, da un altro.
Proprio per tale motivo, anche con una punta di polemica, in dicembre chiedemmo al Governo Monti, così saldamente ancorato ai principi europei, di non lasciare in balia di se stessa la questione ma di farsi promotore di un’iniziativa "organica".
Oggi vediamo che, all’indomani dell’inattesa approvazione dell'emendamento Pini, è lo stesso Ministro di Giustizia a far sue quelle parole, chiedendo al contempo, implicitamente, che la Camera cancelli la norma appena approvata in Senato.
Ora, se si può convenire con la richiesta di modificare la norma così come licenziata dal Senato, eliminando la responsabilità diretta e precisando quella relativa ad inescusabili errori di diritto, ciò può essere fatto apportando alla Camera le correzioni che si ritengono opportune, mentre la richiesta di esaminare un provvedimento alternativo può essere credibile unicamente depositando contestualmente un disegno di legge ed assegnando allo stesso una corsia preferenziale, altrimenti essa finisce per apparire solo l’ennesimo gesto di favore che il nuovo esecutivo compie nei confronti della magistratura.
Il che, per quanto accaduto in questi giorni, assumerebbe il significato di una vera e propria sottomissione nei confronti della magistratura e del suo sindacato che hanno reiterato comportamenti indirizzati a delegittimare la funzione legislativa.
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Non può essere sottaciuto, infatti, che le espressioni rivolte al Parlamento da singoli magistrati e dai rappresentanti sindacali dell’ANM hanno rappresentato plasticamente la pretesa da parte del "terzo potere" di rivendicare una vera e propria esclusiva sulle leggi che lo riguardano. Oltre agli strali lanciati nei confronti dell'intera classe politica, e persino nei confronti del Governo che pure aveva avversato l’emendamento, con espressioni ai limiti del dileggio, si sono registrate vere e proprie intimazioni a cancellare non solo la legge approvata dal Senato ma, sostanzialmente, il tema dalla agenda politica.
Ebbene questo è un comportamento grave, che si registra ogni qual volta le iniziative politiche tentano di modificare le norme che coinvolgono a vario titolo la magistratura: è successo ai tempi della commissione De Mita, poi di nuovo durante i lavori della commissione bicamerale presieduta da D'Alema, ancora nel corso dell'iter della riforma Castelli, infine al momento della presentazione del disegno di riforma costituzionale Alfano.
In tutti questi casi la magistratura, associata e non, ha "diffidato" il Parlamento dall’esercitare le sue prerogative e lo ha fatto in varie forme, di cui è rimasta traccia, perlomeno all'epoca della cosiddetta "bozza Boato", anche agli atti parlamentari, che sono andate ben al di la' del diritto di critica.
Ora che la cosa si è ripetuta, ed anche in forme sovente del tutto irrispettose persino del minimo galateo istituzionale, non è possibile che il Governo, la classe politica e le istituzioni non levino il proprio monito a difesa non già di una singola legge, che ovviamente può anche essere profondamente discussa, o avversata, o criticata, ma della complessiva funzione parlamentare.
Dai magistrati si deve pretendere rispetto della funzione legislativa, non attendere un placet su ogni cosa, come paiono intendere molti rappresentanti politici che hanno appaltato il pensiero sui problemi della giustizia all'ANM e che sono subito corsi in soccorso di una pretesa egemonica che capovolge ed annulla l’architettura costituzionale.
Per molto tempo si è detto, polemicamente, che la tracimazione istituzionale del CSM aveva trasformato questo organo nella "terza Camera". Pian piano anche questo paradosso è stato superato, in peggio, da una realtà in cui sono i singoli magistrati, magari dagli scranni di qualche Procura, ad operare interventi ed invettive tutte politiche, finanche direttamente dal palco di un vero e proprio comizio: prassi criticata persino dallo stesso CSM, seppur con l’esile censura di inopportunità.
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In questo contesto sarebbe anche ora che, abbandonata una subalternità figlia prima di tutto di una sconcertante mancanza di conoscenza tecnica, anche la maggioranza della stampa italiana tentasse di informare sui temi della giustizia in maniera approfondita e non partigiana.
Sul tema della responsabilità civile dei magistrati, infatti, si sono udite e lette in prevalenza cronache semplicemente disinformanti, spesso infarcite di esempi tecnicamente aberranti e fuori luogo, tratti dalle veline della propaganda dei cultori della repubblica dei giudici, senza alcun approfondimento e senza alcuna verifica.
Un conformismo singolare ed un appiattimento totale alle tesi dell’ANM più simili alla disinformatja che non al ruolo di controllore del Potere, di ogni Potere, che dovrebbe essere proprio della stampa in un Paese liberale.
La Giunta                                                                                                        Roma, 5 febbraio 2012