martedì, febbraio 28, 2012

La CEDU condanna l'Italia per i respingimenti in Libia

La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia per i respingimenti di immigrati verso la Libia. 
Si tratta del caso "Hirsi Jamaa e altri contro l'Italia" del 2009 allorquando un gruppo di circa 200 immigrati somali ed eritrei provenienti dalla Libia furono rimpatriati dalle autorità italiane.
 Ai richiedenti l'Italia dovrà versare un risarcimento di 15 mila euro più le spese processuali.

Il principio di non refoulement 
L’Italia ha violato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo e in particolare il principio di non refoulement  (non respingimento), che proibisce di respingere migranti verso paesi dove possono essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.

I fatti
Il 6 maggio 2009, a 35 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali le autorità italiane intercettarono una barca con a bordo circa 200 somali ed eritrei, tra cui bambini e donne in stato di gravidanza. I migranti furono presi a bordo da una imbarcazione italiana, e respinti a Tripoli, dove, contro la loro volontà, vennero riconsegnati alle autorità libiche.
Dalle ricostruzioni successive si è evinto che non vi fu alcuna identificazione da parte delle autorità italiane che del resto non fornirono alcuna informazione riguardo la destinazione. Tant’è che i migranti erano convinti di essere diretti verso le coste italiane.
Rintracciati, dopo il loro respingimento, dal Consiglio italiano per i rifugiati in Libia, 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei, presentarono il ricorso, deciso oggi, alla Corte Europea contro l’Italia, assistiti dagli avvocati Anton Giulio Lana e Andrea Saccucci, dell’Unione forense per la tutela dei diritti umani.

La motivazione della Corte
La Corte ha dunque condannato l’Italia per la violazione di 3 principi fondamentali: il divieto di sottoporre a tortura e trattamenti disumani e degradanti (articolo 3 Cedu), l’impossibilità di ricorso (articolo 13 Cedu) e il divieto di espulsioni collettive (articolo 4 IV Protocollo aggiuntivo Cedu).
Per la prima volta, quindi, la Corte ha equiparato il respingimento collettivo alla frontiera e in alto mare alle espulsioni collettive nei confronti di chi è già nel territorio. I giudici inoltre hanno ricordato che i diritti dei migranti africani in transito per raggiungere l’Europa sono sistematicamente violati e la Libia non ha offerto ai richiedenti asilo un’adeguata protezione contro il rischio di essere rimpatriati nei paesi di origine dove possono essere perseguitati o uccisi.

Per gli avvocati della difesa: trattamenti disumani
“Nel caso di specie - ha dichiarato l’avvocato Anton Giulio Lana - non si è trattato di un mero rischio di subire in Libia trattamenti inumani e degradanti; i ricorrenti hanno effettivamente subito tali trattamenti nei campi di detenzione, come drammaticamente testimoniato dai sopravvissuti”. “Quel che è più grave - aggiunge l’avvocato Andrea Saccucci - è che il Governo italiano abbia affermato pubblicamente che i migranti respinti non rientravano tra le persone aventi diritto all’asilo e non correvano alcun rischio in Libia, affermazione poi clamorosamente smentita dai fatti”.
A causa di questa politica, secondo le stime dell’Unhcr circa 1.000 migranti, incluse donne e bambini, sono stati intercettati dalla Guardia costiera italiana e forzatamente respinti in Libia senza che prima fossero verificati i loro bisogni di protezione.

Stati vincolati al rispetto degli accordi
“Questa sentenza prova che nelle operazioni di respingimento sono stati sistematicamente violati i diritti dei rifugiati, l’Italia ha infatti negato la possibilità di chiedere protezione e ha così respinto in Libia più di mille persone che avevano il diritto di essere accolte in Italia. Vogliamo che questo messaggio arrivi in maniera inequivocabile al Governo Monti: nel ricontrattare gli accordi di cooperazione con il Governo di Transizione Libico, i diritti dei rifugiati non possono essere negoziati” ha dichiarato Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati.
Secondo Allan Leas, facente funzioni del Segretario Generale dell’Ecre: “Questa sentenza conferma che gli obblighi che gli Stati hanno assunto con la Cedu non si fermano con i loro confini geografici. Gli Stati non possono abdicare i loro principi, valori e il loro impegno nella protezione dei diritti umani facendo fuori dei loro confini quello che non sarebbe consentito nei loro territori”.

La ricostruzione del Consiglio italiano dei rifugiati
In una nota il Consiglio italiano dei rifugiati ricostruisce le condizioni di vita in Libia dei migranti respinti il 6 maggio 2009. La maggior parte di essi è stata reclusa per molti mesi nei centri di detenzione libici ove ha subito violenze e abusi di ogni genere. Dopo lo scoppio del conflitto in Libia, i ricorrenti che si trovavano ancora a Tripoli, ed erano stati nel frattempo liberati dai centri di detenzione, sono stati vittime di rappresaglie sia da parte delle milizie fedeli al regime sia da parte degli insorti e sono stati costretti a nascondersi per alcune settimane senza acqua ne cibo. Dopo l’inizio dei bombardamenti Nato, alcuni ricorrenti sono scappati in Tunisia, altri hanno tentato nuovamente di imbarcarsi verso l’Europa, di nuovo.

Un ricorrente è riuscito a lasciare nuovamente la Libia alla volta di Malta, dove ha richiesto e ottenuto protezione. Due ricorrenti sono, invece, deceduti nel tentativo di raggiungere nuovamente l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna. Un ricorrente è riuscito a fuggire in Israele, mentre un altro è ritornato in Etiopia.

Sulla base di testimonianze, si teme che altri ricorrenti abbiano perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia via mare. Al riguardo, si deve ricordare che secondo le stime dell’Unhcr sarebbero circa 1.500 i migranti ad aver perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Italia via mare nel 2011. (da Il Sole 24 ore)

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