Cassazione: non esecuzione di una condanna non conforme alla CEDU
ESECUZIONE - CONDANNA GIUDICATA NON EQUA DALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO - MANCANZA DI UN MEZZO PROCESSUALE PER LA RINNOVAZIONE DEL GIUDIZIO - ESEGUIBILITA' DEL GIUDICATO - ESCLUSIONE
La Corte ha stabilito che «il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo». Questa decisione viene a dare l’attesa soluzione ad una nota vicenda giudiziaria nella quale un condannato era rimasto detenuto in Italia in espiazione di una condanna, nonostante che la Corte europea avesse decretato sin dal 1998 il carattere non equo del processo da lui subito per violazione del diritto dell’imputato di “interrogare o fare interrogare i testimoni a carico”. Le più alte istanze del Consiglio d’Europa avevano più volte richiamato lo Stato italiano ad una puntuale esecuzione alla sentenza della Corte europea, ovvero riconoscendo al condannato, attraverso la riapertura del processo, il diritto ad un “procès équitable”. La mancanza nel nostro ordinamento di un rimedio che permettesse in tali casi la riapertura del processo aveva sinora giustificato l’inadempimento dello Stato italiano. Conclusione, questa, ritenuta dalla Corte Suprema «assolutamente inaccettabile», poiché finiva per disconoscere la precettività delle norme della Convenzione e la forza vincolante delle decisioni della Corte europea. La Corte Suprema ha infatti ricordato che l’obbligo “positivo”, derivante da una sentenza della Corte europea, di ripristinare una procedura rispondente alla legalità sancita dalla Convenzione allo specifico fine di eliminare le conseguenze pregiudizievoli verificatesi in dipendenza della violazione accertata, incombe su tutti gli organi dello Stato, compresi quelli investiti del potere giurisdizionale. In tale prospettiva, la Corte Suprema, chiamata a decidere sull’eseguibilità del giudicato ex art. 670 c.p.p., ha stabilito che la «essenziale correlazione» esistente tra il carattere equo del processo, garantito dall’art. 6 Cedu, e la regolarità della condanna che può legittimare, a norma dell’art. 5 Cedu, la restrizione della libertà personale, impedisce di considerare «legittima e regolare» una detenzione fondata su una sentenza di condanna pronunciata in un giudizio nel quale siano state poste in essere violazioni delle regole del giusto processo accertate dalla Corte europea, sì da rendere non “équitable” non soltanto la procedura seguita, ma anche la pronuncia di condanna.
1 commento:
...raccontatelo all'ANM!
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